Il diverso
Il diverso da questi si allontana
che urlando vanno il nome per le vie,
frenetici di nome. Ignora il nome
che ebbe, il diverso; se ne sta guardando
dentro di sé i giardini che non vide,
senza nome, e le viole che disperse.
Se ne sta senza nome voce gridando,
rotto dalla stanchezza della sera,
della casa lontana; e tutto ride
a lui intorno, e lo strazia. E non è vero.(Da La naturalezza di questa vita)
Voglio ricordare una grande del nostro Novecento, una voce fuori dal coro: Anna Maria Ortese.
Scrittrice, giornalista e poeta, nasce a Roma nel 1914 da una famiglia povera, che peregrina in diverse città alla ricerca di lavoro, tra cui Tripoli in Libia dal 1925 al 1928, quando si stabilisce a Napoli. Durante questi quattordici anni Anna Maria frequenta le scuole elementari e un anno d’istituto commerciale. La sua formazione di autodidatta, seppure profondissima, che comprese lo studio della musica e del pianoforte, lo studio dell’arte e l’esercizio al disegno (altra sua dote) fu una pietra d’inciampo nella considerazione della casta degli intellettuali italiani, dove l’essere donna, era già un handicap.
In una lettera all’amico Dario Bellezza espresse tutto il suo disagio verso l’ambiente letterario, del quale faceva giustamente parte, ma se ne sentiva esclusa, emarginata:
«Spiegarti questo orrore segreto di partecipare alla cultura italiana di buon livello – è impossibile. Sai, sarebbe come rientrare malvestiti e invecchiati in una casa di potenti – dove tutti sono sempre vestiti in modo impeccabile, e soprattutto sono rimasti gli stessi».
La prosa dell’Ortese è raffinatissima; la sua poesia è meno ricercata, ma riesce a coniugare intensità e musicalità, nella semplicità della parola nuda.
L’evento scatenante di quella malattia sublime che chiamiamo poesia fu la morte del fratello Manuele, imbarcato come marinaio a largo dell’isola di Martinica nel 1933, seguita pochi anni dopo da quella del fratello Antonio, sempre marinaio sulle coste d’Albania.
Dopo la morte del primo fratello, tre poesie di Anna Maria, tra cui quella intitolata Manuele, sono pubblicate sulla Fiera Letteraria. Nel 1937 pubblica un libro di racconti dal titolo Angelici Dolori. Da quel momento decise di vivere di letteratura, cosa che le costò una vita di stenti, in questo paese ingrato verso i suoi figli migliori.
Scrisse l’Ortese nella poesia Preghiera della raccolta La luna che trascorre:
Fatemi fuggire
da questo paese strano
ve ne prego con le mani
giunte, fatemi
andare lontano.
Dove la gente parla
in modo buono e sereno
dove nessuno mente,
dove nessuno trema.(…)
Nel 1952 perde i genitori; restano lei e la sorella Maria, che le sarà accanto tutta la vita, supportandola economicamente con il suo stipendio di impiegata delle poste, visti i magri ricavi dalle vendite dei libri.
«(…) E penso di non essere un vero scrittore se, finora, non mi è riuscito di dire neppure lontanamente in quale terrore economico – e quindi impossibilità di scrivere – viva, in Italia, uno scrittore che non prenda gli Ordini. E che non abbia avuto, nascendo, nulla di suo, neppure un tetto».
In queste poche righe si concentra il dramma tutto italiano della letteratura, che non accenna a migliorare e anzi peggiora di giorno in giorno.
Anna Maria è una voce scomoda e profonda, non scrive libri adatti a un pubblico distratto e sciatto. La sua prosa oscilla tra realtà e sogno, dove dell’onirico vi sono solo i contorni sfumati, che non leniscono la crudezza della verità, semmai la esaltano.
«È qui, dove si è rifugiata l’antica natura, già madre di estasi, che la ragione dell’uomo, quanto in essa vi è di pericoloso pel regno di lei, deve morire».
(Da Il mare non bagna Napoli, Il silenzio della ragione)
Anna Maria Ortese tra il 1945 e il 1950 collabora con la rivista culturale «Sud», voluta da Pasquale Prunas, nata subito dopo la guerra.
L’esperienza della rivista, la frequentazione di personalità come il Compagnoni, Prunas, Rea e La Capria, il declino del fervore rivoluzionario del dopo guerra, sarà raccontata dalla penna dell’Ortese, ne Il silenzio della ragione, uno dei sei racconti presenti nel suo libro più conosciuto, Il Mare non bagna Napoli, pubblicato per la prima volta da Einaudi nel 1953 nella collana I Gettoni, con una prefazione di Vittorini.
Fu apprezzata tra gli altri anche da Valentino Bompiani, fondatore della casa editrice che porta il suo nome. La sua prosa ha uno spessore che non può passare inosservato e stride, in quel mondo ipocrita degli intellettuali, per lo più borghesi, maschi e pieni di titoli accademici, la cultura autodidatta e le origini umili di questa donna, che non ha peli sulla lingua e ossequio per alcuno.
«Qui, il mare non bagnava Napoli. Ero sicura che nessuno lo avesse visto, e lo ricordava. In questa fossa oscurissima, non brillava che il fuoco del sesso, sotto il cielo nero del sovrannaturale».
(Da Il mare non bagna Napoli, Oro a Forcella)
Una Napoli, quella del libro, che non ha nulla a che vedere con le sue splendide piazze, le sue vie più altisonanti e le passeggiate sul lungomare. Questa è la Napoli dei vicoli maleodoranti, dove il mare non si vede neppure per sbaglio, dove il sole lambisce solo i piani alti dei palazzi e il sesso svenduto, doloroso e crudele è l’unica umanità rimasta.
Anna Maria non fa sconti a nessuno, come non li fa a se stessa, e questo le costerà pesanti critiche, tali da costringerla un amaro addio alla tanto amata Napoli, che non rivedrà mai più.
Nella riedizione del libro del 1994, la Ortese scrisse alcune riflessioni nella prefazione a Il mare come spaesamento su quanto successe quando fu pubblicato il libro, di cui riporto un breve ma significativo stralcio:
Era il ’53. L’Italia usciva piena di speranze dalla guerra e discuteva su tutto. A causa dell’argomento, anche il mio libro si prestava alle discussioni: fu giudicato, purtroppo, un libro – contro Napoli – (…)
Me ne sono a lungo rammaricata, e ho tentato più volte di precisare quanto comprendessi il disagio di un comune lettore italiano cui non fu detto – né io sapevo e potevo dirlo – che il Mare era solo uno schermo, non proprio inventato, su cui si proiettava il doloroso spaesamento, il male oscuro di vivere – (…)
Nel 1960 Anna Maria arriva nella Milano dell’emergente e rampante consumismo. La Milano da bere che sarà locomotiva di uno stravolgimento culturale, morale del pensiero, che non a caso Pasolini definiva mutazione antropologica.
L’Ortese come il friulano vive l’esaltazione del dopoguerra con pensiero critico, senza eccessivo e cieco entusiasmo, questo le permette di non lasciarsi imbrigliare dalle fagocitanti mediocrità della civiltà dei consumi.
Nel 1965 per l’editore Adelphi esce L’Iguana, un romanzo di difficile lettura ricco di riferimenti simbolici, che servono alla costruzione della trama assurda ma così reale. Milano è la città da cui comincia la storia, non è un caso perché in quegli anni il potere economico era concentrato quasi esclusivamente lì. Le fabbriche vanno in cerca di mercati nei quali fare profitti. Sono numerosi i faccendieri di ogni genere che si arricchiscono, trafficando di tutto. Poi c’è l’incontro tra la bestia e l’uomo che in essa ritrova la parte migliore.
A proposito de L’Iguana, riporto un pezzo dell’Ortese, tratto da Corpo Celeste, un libro nel quale l’autrice ha spiegato le ragioni, che ispirarono i suoi racconti migliori, trovato su un articolo di Benedetta Sonqua Torchia:
«C’è molto dolore nel mondo, (…) perché l’irreale – il non conosciuto – è assai più profondo. Mille ragioni, di Stato o pratiche, vi si oppongono. Non per malvagità, ma perché a quelle condizioni che mantengono il disordine su cui cresce il dolore, sono legati innumerevoli interessi, anche di cultura o vecchia cultura; quindi di autorità. Quando per esempio dai il mondo come spiegato – per così dire: naturale – ci edifichi sopra le cose degli uomini. Quando lo dai come inspiegabile, cioè innaturale e lo definisci come visione del fuggevole, ci edifichi l’uomo. Non è una differenza da poco. Edificare l’uomo è gratuito. Edificare le cose (dell’uomo e sull’uomo) porta compensi molto altri, non solo economici. Ma perde l’uomo.»
Nel 1967 vince il Premio Strega con il libro Poveri e Semplici. Come sempre accade, si vince con il libro meno significativo, soprattutto nel caso della nostra autrice, la cui prosa migliore è anche quella meno commerciale.
Il lutto per i fratelli prematuramente scomparsi a causa della guerra, il vissuto così lacerante e lacerato dalla dittatura, dalla guerra civile e mondiale, ha inciso profondamente sulla poetica e quindi nell’animo di questa autrice.
Enzo Golino in un’intervista su La Repubblica del 2003 dice di lei: «Una vita imprendibile, tormentata da una spasmodica volontà di espressione, dominata dal desiderio narcisistico di sublimarsi autobiograficamente in letteratura, turbata dalla coscienza di essere inadeguata al mondo».
La scrittura è per Anna Maria Ortese una necessità, una cura dal male insondabile dell’esistenza. Un dolore persistente e silenzioso che solo la parola può lenire nell’estasi dell’ispirazione.
«Il mare! Ecco cos’è una vita quando gli anni si mettono a correre tra noi e la riva diafana sulla quale siamo apparsi la prima volta: assopito, remoto, mormorante mare»
(Da Il Porto di Toledo)
Sempre in cerca di un lavoro, Anna Maria Ortese si stabilirà in diverse città d’Italia, Milano prima e Roma poi, seguita da sua sorella Maria, che a lei ha dedicato la sua vita, rinunciando a una famiglia propria e di questo, Anna Maria ne ha sempre sofferto.
Nel libro Il Porto di Toledo, del 1975 la Ortese trasfigurerà la sorella Maria e i suoi familiari in personaggi senza tempo e dai contorni sfumati dal ricordo di una tredicenne, in una Napoli che sarà una Toledo immaginaria, sempre in bilico tra dannazione e salvezza. Fu pubblicato da Rizzoli ricevendo un giudizio favorevole di Enzo Siciliano, ma fu poco pubblicizzato ed ebbe scarso successo di pubblico. Questo trattamento davvero poco gentile degli intellettuali nei confronti di Anna Maria, ha portato al suo definitivo allontanamento da Roma e dalla vita culturale, per ritirarsi a Rapallo con la sorella.
È un libro che ancora oggi rimane misterioso e di difficile lettura, a questo proposito dice Adelia Battista, amica della Ortese, in Ortese segreta:
…Aveva voluto una lingua inedita, per la scrittura del Porto di Toledo: misteriosa, segreta, una “lingua da gitane” fatta di metafore e allusioni, con cui trascendere la realtà e creare un nuovo reale.
Prima Napoli, poi Milano e Roma, la Ortese si lascia alle spalle pezzi della sua esistenza, morte speranze che saranno rielaborate nei numerosi libri di racconti e di poesie che ci ha lasciato.
Altro
E la pioggia è caduta sul cappello
del lume sta all’angolo del vico!
Come sempre! Ma il vico muto splende
di straniera bellezza. Altre case,
altro il vento, altra l’alba che riluce
tra le nubi del mondo. E il mondo un altro.
Chi appartiene all’Altro, cioè alla Poesia, vive sul limitare dell’infinito e riesce a trasformare un vicolo anonimo, deserto per la pioggia, battuto dal vento insidioso, in un’immagine che buca l’anima.
La poesia vede l’Altro, scandagliando le viscere della parola, che allora si apre come una rosa di maggio, come la mente, riproducendo i suoni di tuoni lontani e il picchiettio della pioggia sul cappello del lampione, con quella ripetizione di consonanti come la T e la R ammorbiditi dalla L dell’aggettivo, che non pone limiti all’immaginazione.
È nell’indefinito che si muta altra alba, accennata e soffusa dalle nuvole, in altre case, altra realtà. Il poeta, come disse il nostro amato Leopardi, con il cor si spaura, ma nonostante tutto non cede e nell’inferno della vita avanza al seguito della Poesia come Dante per raggiungere quel mondo altro.
(…) in questa vita, il cui corso prosegue con una uniformità – per chi
guardi dall’alto -, una tristezza, un’assenza di fantasia addirittura
allarmante, accadono talora, quando più l’anima sembra immersa
nello spasimo e nella stupidità della noia, cose che sanno di
arcano; apparizioni, luci e suoni che non procedono da questa
terra.(Da Il Monaciello di Napoli)
Rapallo fu l’ultima città dove visse Anna Maria Ortese fino al 1998, quando si spense a 84 anni.
Negli anni ’90 del secolo scorso viene apprezzata e supportata dagli amici Dario Bellezza e Pietro Citati. Escono nel 1993 per Adelphi Il Cardillo Addolorato e 1996 Alonso e i visionari. Insieme a L’Iguana sono i tre libri più visionari, dove è evidente il cammino di perfezionamento della sua scrittura, che diventa matura e più poetica.
Scrisse un’infinità di libri, articoli e poesie, la sua fu una vena prolifica, che merita di essere conosciuta e apprezzata. Qui abbiamo preso in considerazione i testi più conosciuti, per dare un’informazione il più ampia possibile su questa autrice molto interessante.
I suoi racconti, pur non perdendo mai la magia fantastica della prosa, sono una fonte preziosa di memoria e conoscenza per noi che affrontiamo un secolo nuovo, dove dell’esaltazione della modernità e del progresso raccogliamo le microplastiche e le alghe tossiche nel mare, respiriamo l’aria inquinata, piangiamo le foreste distrutte e coltiviamo tanto livore e dolore nell’anima e nel corpo.
Per approfondire:
Anna Maria Ortese «Uno scrittore-donna, una bestia che parla, dunque» di Cristina Celani sul blog Tropismi
Anna Maria Ortese, biografia di Emanuela Pozzi sul blog Enciclopedia delle Donne
Le audaci tentazioni di Anna Maria Ortese: Il porto di Toledo. Articolo di Alfredo Ronci sulla rivista letteraria contemporanea Paradiso degli Orchi
Il sonno della ragione: la Napoli di Ortese. Articolo di Marco Gadaleta su Tropismi
La poesia compagna di vita di Anna Maria Ortese, articolo di Anna Toscano sul blog di cultura letteraria Minima & Moralia
L’iguana e la bestia di Anna Maria Ortese. Articolo di Benedetta Sonqua Torchia sul blog TerraNullius
Per un’analisi dei racconti realistici di Anna Maria Ortese. Articolo di Petra Tanghetti su Academia.edu
L’impegno etico di Anna Maria Ortese di Angela Borghesi sulla rivista Doppiozero.
In copertina: William Turner, Castel dell’Ovo, Napoli, con Capri in lontananza, 1819