Giovanni Arpino è uno dei pochi scrittori italiani ad aver vinto il Premio Strega e il Premio Campiello; dai suoi libri sono nati film cult italiani e internazionali come Divorzio all’italiana, Anima persa, Profumo di donna, quindi Scient of a Woman che valse ad Al Pacino, nel 1993, l’unico Premio Oscar della carriera. Eppure, se chiedessimo oggi al lettore medio chi è Arpino difficilmente saprebbe rispondere.
Il fuorigioco letterario non è una novità all’interno dell’industria culturale, ma risulta quantomeno raro per uno degli scrittori più prolifici, atipici e poliedrici del nostro Novecento in grado di frequentare il circuito mainstream senza rinunciare alla propria indole irrequieta.
Scomparso il 10 dicembre 1987 all’età di sessant’anni per un carcinoma, solo negli ultimi quindici anni c’è stata una riscoperta di Giovanni Arpino. Nel 2005 Mondadori gli ha dedicato un meridiano di “Opere scelte” a cura del critico letterario Rolando Damiani, mentre le case editrici Lindau e Minimum fax hanno ripreso in mano il suo catalogo (senza particolari vendite). L’operazione culturale, tuttavia, risulta ancora blanda per uno scrittore in grado di raccontare così peculiarmente il Piemonte (da Bra a Torino, passando per le Langhe) e scalfire quarant’anni di Italia con prospettive originali e spesso controcorrenti, sulla scorta del motto: “La vita o è stile o è errore”.
Il debutto avviene nel 1952 per Einaudi quando Elio Vittorini decide di accogliere il romanzo autobiografico Sei stato felice, Giovanni all’interno della collana «I gettoni» che in quell’anno pubblicò Italo Calvino e Beppe Fenoglio. Negli appunti al dattiloscritto, Vittorini scrive: «Neorealismo con parolacce, però con una vera città dentro e della vera gente, mica roba tirata su aiutandosi con i ricordi del cinema». Le titubanze di Calvino, già lettore per Einaudi, non scalfiscono le idee Vittorini che, noto per l’editing invasivo, decide di pubblicare il romanzo con pochi ritocchi.
Il libro viene accolto tiepidamente e lo stesso Arpino, in seguito, rifiuterà la ristampa avvenuta recentemente con Minimum Fax. Eppure, rimane un gioiello di spontaneità dove emergono caratteristiche presenti in molte sue opere come l’entrata in medias res, i fitti dialoghi, un linguaggio parlato, il finale aperto. Scritto in una manciata di settimane, il testo è il frutto di un soggiorno in una bettola a Genova che lo scrittore piemontese si impose per poter ricavare un romanzo.
Quando ritorna dalla leva militare svolta a Napoli, a venticinque anni, Giovanni Arpino è ufficialmente un narratore Einaudi. Ed è proprio qui che cominciano le contraddizioni di un uomo che viveva senza scarpe come lo ha descritto la moglie Rina Breno: rifiuta l’incarico di lettore propostogli da Vittorini, accetta quello di venditore rateale per la casa editrice che gli garantisce uno stipendio sicuro. Per anni, quindi, gira in lungo a in largo il Piemonte promuovendo le novità Einaudi, mentre è alla ricerca di una poetica più matura.
Nel 1958 porta a termine Gli anni del giudizio, in cui narra le inquietudini di Ugo ed Ester, una coppia di operai comunisti militante che sta perdendo le proprie certezze nel PCI prima delle elezioni del ’53 note per la “legge truffa”. Nel 1959 scrive La suora giovane che Eugenio Montale definisce un «Idillio ricavato dal legno della più cruda e naturalistica fetta di vita», in cui Arpino racconta l’infatuazione sbocciata e mai realmente fiorita tra un ragioniere quarantenne disilluso (Mathis) e una diciannovenne prossima ai voti (Serena).
Il suo nome incomincia a circolare nei perimetri della cosiddetta “Scuderia Einaudi”, Arpino tesse rapporti, ma non riesce ad allinearsi all’afflato ideologico che si respira al suo interno, maturando la sensazione d’esser facilmente etichettato agli altri scrittori Einaudi. Con coraggio, a Italo Calvino, scrive: “Non sono mai stato comunista, ma quella loro pesante terrestrità mi apparteneva e mi appartiene; consisteva (e consiste) in amore del prossimo, della giustizia, del possibile accordo umano”.
Come riporta Bruno Quaranta nel suo Stile Arpino” del 1989, lo scrittore di Bra era reticente ai legami con alcuni esponenti della cultura comunista come Mario Alicata e Rossana Rossanda: «In cellula si leggevano, con gli occhiali dell’ideologia, i problemi affrontati durante il giorno senza paraocchi. Il clima in breve si surriscaldava, grondavano i cerebralismi, si spremevano i sacri testi. Erano il miele e il fiele di casa Einaudi». Giovanni Arpino, che mai aderirà a nessun partito, vuole impregnare la propria letteratura di una morale senz’altro imprescindibile, ma che sappia farsi scudo dagli occhi pieni di sale, come direbbe Rino Gaetano.
Nel 1960, quindi, riesce a divincolarsi dai tipi dell’Einaudi e pubblica per Mondadori Un delitto d’onore. Qui, come ne La suora giovane, Giovanni Arpino libera il proprio lirismo per narrare un’Italia patriarcale in cui la donna viene trattata come oggetto da acculturare e dominare. Lo scrittore, tuttavia, non esprime posizioni nette, ma lascia ai dialoghi il compito di sviluppare la vicenda senza imprimere visioni manichee: è uno dei marchi di fabbrica di Arpino. Dal libro nasce Divorzio all’italiana diretto da Pietro Germi, interpretato da Marcello Mastroianni e Stefania Sandrelli.
La pellicola viene premiata nel 1963 con l’Oscar per la miglior sceneggiatura originale, ma Giovanni Arpino si defila: alle persone che gli chiedono del suo legame con il cinema è solito definirsi “un autore defunto”. In quest’ottica bisogna leggere il rapporto controverso con Dino Risi che girerà “Anima persa” e “Profumo di donna” tratto da “Il buio e il miele”. Arpino non volle mai incontrare il regista e criticò aspramente l’ego dell’attore Vittorio Gassman.
Nella prima metà degli anni ’60, Giovanni Arpino è uno degli autori italiani più letti ed elogiati: nel 1962 scrive Una nuvola d’ira, in cui il ménage à trois di Matteo e Sperata con l’amante Angelo diventa un originale pretesto per indagare la classe operaia dell’epoca, sdoganando i canoni di un’Italia ancorata alla pena per adulterio.
Arpino offre spigoli, più che tematiche, inconsueti per la nostra letteratura, intrecciando diverse anime dell’ideologia comunista, e ravvisando in essa una prima forma d’appagamento scaturita dal boom economico. Se per quest’opera riceve le aspre critiche di Palmiro Togliatti che bandisce il testo tra le fila del PCI, nel 1964 Giovanni Arpino vince il Premio Strega con L’ombra delle colline inserendosi nel vasto filone della letteratura partigiana, rifiutandone tuttavia l’ideologia fin troppo edulcorata di quell’epoca. La fase più esplicitamente “impegnata” di Giovanni Arpino, tuttavia, termina qui, all’apice della notorietà, e prende corpo una poetica variopinta e meno immediata.
Lo scrittore nativo di Pola si cimenta nella letteratura per ragazzi con intenti pedagogici, nel teatro, nella poesia, diventa un celebre giornalista approdando nel 1969 su La Stampa in qualità di cronista sportivo. È una scelta totalmente controcorrente per un autore d’élite, ma che certifica quel carattere ondivago. Nella decennale esperienza sul quotidiano torinese, Giovanni Arpino si aggira a ritmo sincopato tra stadi e palazzetti, scopre regioni d’Italia e paesi del mondo.
Nel 1974 segue l’esperienza nefasta della nazionale italiana di calcio ai mondiali tedeschi traendone nel 1977 il romanzo autobiografico Azzurro tenebra. Secondo Darwin Pastorin, che recentemente ne ha scritto la prefazione per i tipi di Minimum Fax, la penna di Arpino, più di quella di Gianni Brera, ha affrancato lo sport dalla condanna di cultura di “serie b” rivoluzionandone il racconto.
Lo scrittore piemontese, contestualmente, raccoglie oltre 200 racconti che fungono da bozzetti per i nuovi romanzi brevi in cui sperimenta il genere del fantastico. Tra libri e quotidiani, dove parla anche di cinema, libri, pittura e folklore, Giovanni Arpino ama definirsi un «bracconiere di storie e di personaggi»: è a piene lettere un autore sui generis nel panorama italiano. In Randagio è l’eroe, Domingo il favoloso e Un quarto di luna, mostra sempre più la propria indole ironica, grottesca, surreale.
I protagonisti picareschi e disincantati, come quelli dell’amico epistolare Osvaldo Soriano o dell’amato Totò, sono proiezioni del proprio “io” in una realtà che forza le maglie del quotidiano per afferrarne il vuoto. In Azzurro tenebra, che può essere considerato uno spin-off di questo filone, il protagonista Arp afferma: «Sono un narratore di storie, me ne vanto e son contento. Anzi: ero. Diventa difficile stringere in mano questo mondo: è liquido».
Sarebbe, tuttavia, errato intendere questi anni come una fase di disimpegno. Il 22 novembre 1977 su La Stampa, in seguito all’uccisione del giornalista Carlo Casalegno da parte delle Brigate Rosse, Arpino riprende il concetto “chicco individuo” di Gadda e avverte: «L’intellettuale non appartiene a una corporazione, non può costituire clan, non può cedere alle suggestioni dei giochi verbali così cari all’agudeza italiana». In una nota al racconto Il viale nero del 1983 afferma: «Chi non sa scrivere in piedi, moralmente parlando, è uno che imbroglia, che non obbedisce al suo dovere, un facilone che bracca il successo e non la verità dolente ma sovrana della Scrittura».
Nel 1979, quindi, lascia lo sport e La Stampa per approdare su il Giornale dell’amico Indro Montanelli, dove si diletterà inoltre a scrivere finti e beffardi epitaffi di personaggi illustri. Questa scelta non è da leggere come una svolta conservatrice, né tantomeno a destra: è piuttosto un’ulteriore sterzata di un autore “irregolare”, anche per questo gradualmente emarginato dall’élite culturale.
Oggi, tuttavia, possediamo la giusta distanza temporale e adeguati strumenti culturali per rileggere tutti quei testi che hanno appassionato i lettori italiani di quarant’anni fa grazie anche al lavoro di recupero portato avanti da Lindau e Minimum Fax. Leggere Arpino oggi, quindi, non significherebbe solamente riabilitarlo del suo valore letterario passato per scoprire come siamo stati, ma anche per comprendere alcune dinamiche odierne come la perdita di appeal del socialismo italiano (ed europeo) sulle masse che Arpino ha saputo raccontare con i suoi protagonisti terrestri e nello stesso tempo liquidi.