Una delle cose che più affascina nel mondo del jazz è la frequente compenetrazione tra miseria e bellezza. Le vite dei grandi musicisti, delle grandi cantanti si sono spesso consumate nel fango, annaspando tra povertà, amori in frantumi, tossicodipendenza, sigarette e pugni. Eppure questi uomini così fragili, così umani alla fine ritornavano dalle viscere dell’esistenza (è questo l’inferno?) portando con sé sprazzi di bellezza, nei loro sassofoni, nelle loro voci roche. Un salvagente arancione emerge d’un tratto da un oceano in tempesta.
La vita e l’arte nel Jazz sono qualcosa di estremamente vicino, quasi consequenziale, nessun calcolo, nessuna astrazione: la vita che parla attraverso i suoni.
Ricordo a tal proposito di un festival parigino, in pieni anni 60, al quale fu invitato a partecipare tale sassofonista Archie Shepp (all’epoca era di moda il Free Jazz, una musica molto libera ed espressionista) e proprio quella sera tra il pubblico sedevano il pittore Mirò e il filosofo H. Marcuse. Costui, affascinato da questa forma d’arte primigenia, quasi scaturita dall’Es, si sarà di certo speso nella catalogazione delle concause che hanno spinto l’essere umano nel 1963 d.C. ad esprimersi così selvaggiamente.
Intanto Shepp era sul palco fradicio di sudore, impegnato a trarre da quell’ottone urla stridenti, frasi tutte aggrovigliate, lamenti di vario genere. Eppure quello che Shepp voleva dire non poteva essere ridotto in parole, era la sua condizione di nero nell’America del dopoguerra, l’Africa, la libertà, il sesso, il rapporto con la madre, la sua vita, le uova a colazione, nulla di tutto questo, il sole dalla finestra, la… Appunto: non può essere ridotto in parole; talvolta le parole sembrano solo lontananze su lontananze.
Questo per dire che il jazz, per quanto appaia una musica cervellotica e repulsiva, che necessita di una buona digestione e rielaborazione, in realtà è molto più vero di quanto sembri, e le vite dei suoi protagonisti ne sono testimoni.
Ora, per sentire sulla vostra pelle tutto ciò (è una questione di feel, non di cervello), occorre che facciate partire il brano sottostante – ma senza prestarvi troppa attenzione. Continuate pure a leggere.
Charlie Parker, Charlie “Bird” Parker, la leggenda, o per i non cultori forse il più grande sassofonista di sempre, incise una versione di Lover Man (qui cantata da Billie Holiday), nel 1946 in uno studio di Los Angeles: questa sarà per sempre ricordata come la più sublime e tragica registrazione dell’intera storia del jazz.
Nacque a Kansas City da una famiglia povera. Il padre lo abbandonò poco dopo la nascita e il giovane Charlie per tutta l’adolescenza si dedicò tanto al sassofono quanto all’eroina. Giunto a New York in pochi anni divenne la nuova stella del jazz, rivoluzionò completamente il modo di suonare e diede vita al “Bebop”, che tanto avrebbe ispirato la Beat Generation.
Per tutta la sua vita, anche all’apice del successo, fu un uomo terribilmente instabile: amò più volte e più volte fuggì, si sposò dimenticando di essere già sposato, spese tutti i guadagni in eroina, tentò a più riprese il suicidio, divenne alcolizzato, fu internato tre volte in ospedali psichiatrici. Sembrava che la vita non volesse cucirglisi addosso e lui la rifuggisse, sempre in fuga e in cerca di qualcosa, come se il cielo e il diavolo se lo contendessero tirandolo per le braccia. Bird no, non era cattivo, tuttavia per quanto cercasse la tenerezza, la pacificazione, era destinato ad una impenetrabile solitudine.
In Parerga e Paralipomena Schopenauer racconta una parabola che parla di porcospini: «Due porcospini, in una fredda giornata d’inverno, si strinsero vicini, per proteggersi, col calore reciproco, dal rimanere assiderati. Ben presto, però, sentirono le spine reciproche; il dolore li costrinse ad allontanarsi di nuovo l’uno dall’altro.»
Charlie Parker passò tutta la vita prigioniero di questa frustrazione: più cercava contatto, fiducia, amore, più procurava dolore agli altri e a se stesso. E allora voleva fuggire, flyin’ high, bucarsi.
Torniamo al 1946: Los Angeles, California. Parker, sfiancato da un tournée sulla West Coast segnata più dall’astinenza che dal successo, decise di riunire un’ultima volta il quintetto per una seduta di registrazione. Quel giorno in cabina era presente anche uno psichiatra, chiamato per far fronte agli squilibri mentali di Bird. Parker stava male, sudava copiosamente e non riusciva a controllare i propri movimenti. Allora il dottore gli diede alcune pastiglie; a quel punto chiese di registrare un ultimo brano, Lover Man.
Ci fu una lunga introduzione di piano che scandiva il tempo in attesa del sassofono. – raccontò anni dopo un giornalista presente quel giorno – Charlie aveva mancato l’entrata. Con alcune battute di ritardo, finalmente entrò. La sonorità di Charlie era stridente, piena di angoscia. In essa c’era qualcosa che spezzava il cuore. Le frasi erano strozzate dall’amarezza e dalla frustrazione dei mesi passati in California. Le note che si susseguivano avevano una loro triste, solenne grandiosità. Sembrava che Charlie suonasse con automatismo, non era più un musicista pensante. Quelle erano le dolorose note di un incubo, che venivano da un profondo livello sotterraneo. Ci fu un’ultima strana frase, sospesa, incompiuta e poi silenzio. Quelli nella cabina di controllo erano un poco imbarazzati, disturbati, e profondamente commossi.
In un disco di gommalacca graffiato da un pennino è racchiusa un’intera vita, pericolosa, oscura e affascinante quanto il mistero che coglie il bambino mentre osserva il leone da dietro le sbarre. C’è qualcosa di terribilmente romantico in tutto ciò.
Ascolta la playlist su Spotify
Leggi anche Nina Simone in 10 canzoni