La morte del padre di Dragon Ball, Akira Toriyama, è pesante da digerire per il mondo nerd. Toriyama ha segnato uno spartiacque: prima di lui il manga era un fenomeno soprattutto giapponese; con lui è diventato un fenomeno planetario. In poco più di vent’anni, manga e anime sono passati da luoghi semiclandestini a essere considerati opere dal riconosciuto valore culturale e artistico. Quando usciva Dragon Ball, invece, qui da noi i “cartoni giapponesi”, come li si chiamava spregiativamente, erano oggetto di uno stigma che oggi fa semplicemente sorridere.
Io stesso, ammetto, sono arrivato molto tardivamente ad apprezzare il genere, e anche solo sette o otto anni fa guardavo con una certa perplessità chi mi proponeva quei libracci stampati oggettivamente male, pieni di disegni che, apparentemente, mostravano solo combattimenti ed esplosioni. Ho capito dopo quello che mi perdevo, e quanto quei libracci fossero invece rivoluzionari, dotati di una struttura narrativa ben più complessa rispetto agli omologhi americani ed europei, ricchi di storie e tematiche molto forti ed estremamente attuali.
Eppure, nonostante sia stato cresciuto a pane e Disney, e lasciato un po’ a digiuno di “cartoni giapponesi”, Dragon Ball per me c’è sempre stato. Certo, visto sporadicamente, male, sia per una costanza che non avevo, sia per via di una programmazione televisiva che non capiva quanto stava trasmettendo e quindi interrompeva le saghe, saltava gli episodi e altre amenità consuete ai bambini di quell’epoca. Però, anche non guardandolo, anche avendolo recuperato dopo, manga e anime, da adulto, su di me quel vituperato cartone ha sempre suscitato un’influenza potentissima. E non solo su di me, ovviamente.
Akira Toriyama, è scontato dirlo, è stato infatti un pioniere, un apripista. Al punto che possiamo parlare, come per Harry Potter, di una Dragon Ball Generation. Sì, esistevano già anime di indiscutibile successo, come Lady Oscar, Heidi, Candy Candy, ma il fenomeno Dragon Ball fu completamente diverso: ha suscitato un interesse specifico nei confronti della cultura di massa giapponese in un modo che prima era impensabile. Oggi i manga vengono stampati, vengono letti e le librerie fanno sempre più spazio a migliaia di volumi; quasi nessuno invece conosce Le rose di Versailles, il manga da cui è stato tratto Lady Oscar.
Già tonnellate di opere precedenti contenevano tutto ciò che avrebbe sconvolto i benpensanti, dai richiami sessuali alla violenza. Dragon Ball, però, aveva dalla sua un grande pregio: non poteva essere frainteso. Non ci si poteva mettere dentro Dante, come nel doppiaggio dei Cavalieri dello Zodiaco; anche censurandolo pesantemente, comunque si capiva tutto lo stesso. Non era né Pollon né Sailor Moon. Non perché fosse particolarmente crudo o grandguignolesco, ma perché Dragon Ball è sempre stato schietto come il suo protagonista, puro, dotato di una freschezza, di una leggerezza che sono ancora oggi invidiabili.
La prima caratteristica di Toriyama, infatti, è la spontaneità. Toriyama chiama sempre le cose col proprio nome, senza nasconderle, senza edulcorarle troppo, con un equilibrismo perfetto tra serietà e gioco: ogni elemento è pensato per non essere preso troppo sul serio, ma nello stesso tempo riesce a colpire, ad arrivare al “kokoro“, al cuore, come dicono i mangaka.
Da un lato infatti le gag comiche si sprecano: con un colpo di genialità, o di cringe ante litteram, i personaggi si chiamano come dei vegetali, da Vegeta (nomen-omen anche in italiano) a Kakarot (carota) a Kuririn (castagna), e il loro nemico è nientemeno che Freeza, cioè il freezer; tutta l’opera è costellata da battute e scene a sfondo erotico, come quelle tra Bulma e il Maestro Muten, e addirittura il primo arco narrativo si conclude su delle mutande femminili. D’altro canto, però, quella di Goku è una storia di amicizia, di perdono, dell’importanza della disciplina ma anche e soprattutto dell’importanza di stupirsi, di non avere pregiudizi, di guardare il mondo in modo davvero libero.
Questo equilbirio tra serietà e divertissement ha a che fare con un certo disimpegno, una nonchalance di Toriyama per i problemi della cultura “alta”. Non, che non a caso passa per essere “pigro” (se non fosse che nessun mangaka lo è realmente) o, come dice lui, “campagnolo”. Lo stesso Son Goku, se ci si pensa, è un personaggio apparentemente scontato: è l’eroe di tutte le fiabe, l’eroe senza macchia e senza paura.
Ma è solo un’apparenza. Goku è statico, sì, ma non bidimensionale: è anche un po’ Pinocchio, con la sua curiosità inopportuna e il suo essere alieno alle convenzioni sociali; ed è anche una sorta di Peter Pan, che – a differenza di questi – riesce davvero a sconfiggere il tempo: è sempre più forte, bello, è sempre giovane anche quando gli anni passano; non muore neanche quando muore.
Il suo essere un personaggio così statico, invece di appiattirlo, gli dà forza. Perché dentro a Goku c’è una nipponicità inaspettata. Non solo è l’archetipo dell’eroe giapponese, da Momotaro a Urashima Taro, o, come si sa, ispirato a Sun Wukong, il guerriero scimmia del Viaggio in Occidente, ma soprattutto Goku rappresenta, anche da adulto, il bambino, chi vede il mondo per la prima volta, con ingenuità, ma anche con bontà d’animo.
Goku è quel personaggio che rassicura con la sua presenza, perché è sempre lui, non cambia, non tradisce, e in questo rappresenta la tradizione, in un Giappone che negli anni ’80 stava cambiando con una velocità incredibile[1], divenendo un luogo per allora davvero fantascientifico. Se questo si tradusse in una fascinazione per il mondo meccanico, al punto che Toriyama ha riempito il manga di mezzi meccanici futuribili, ideati da lui stesso, Goku è invece tutto ciò che rimane semplice, puro, essenziale. Tutto ciò che permane, nonostante il passare del tempo, nonostante le mode, nonostante le nuove tecnologie e i nuovi tempi.
Questo aspetto diventa chiarissimo, paradossalmente[2], non nel manga, ma in un episodio filler dell’anime, a cui Toriyama non ha neanche lavorato: è uno degli episodi finali di Dragon Ball Z, il 288, in cui Goku rifiuta di essere invitato a una festa per vedere la schiusa di un uovo di dinosauro.
L’episodio in sé non ha da dire molto, ma esplica ciò che era implicito in tutto il manga: a Goku, della mondanità, della città, della modernità, non è mai importato nulla. Ciò che rende vivo Goku sono sì gli amici, gli affetti, ma anche e soprattutto lo stupore per cose molto semplici: nuotare, pescare, vivere nella natura. Perché, in fondo, lui appartiene alla foresta: è lì che viveva, è quello il mondo da cui è venuto via quando, un giorno, una ragazza gli ha parlato di raccogliere alcune sfere magiche, e lui l’ha seguita, per amore del suo nonno perduto.
Questo elogio dell’immutabilità si riflette anche in un’idea che struttura l’intera opera: il superamento della morte. Anche se Toriyama non è certo un autore religioso, si sente una certa influenza della cultura popolare shinto: la morte è solo un passaggio da un mondo a un altro: i morti, gli antenati, in realtà, continuano a essere presenti e a influenzare il nostro mondo. E le sette sfere del drago non sono altro che un nuovo modo di ribadire questa idea.
Ecco forse perché Dragon Ball è così toccante, così bello. Certo, Goku bambino è terribilmente kawaii[3]; molte situazioni sono assolutamente comiche; l’universo narrativo, pur semplice, è avvincente. Ma, a voler fare le pulci, ci sono altrettanti difetti: la struttura narrativa è davvero elementare, ci sono personaggi dimenticati; c’è una semplicità che a volte è pressappochismo[4]. Eppure c’è il kokoro, il cuore: le cose che contano nella vita sono poche, maledettamente poche, l’amicizia, la lealtà, la capacità di vedere il buono in chi se lo merita; o anche, volendo, la schiusa di un uovo.
C’è una storia che riguarda non il padre di Goku, ma uno, diciamo così, dei suoi zii: il doppiatore italiano, Maurizio Torresan, in arte Paolo Torrisi. La storia l’ha raccontata Gianluca Iacono, che invece è stato il doppiatore di Vegeta, e secondo me racchiude tutto quello che c’è da dire su quest’opera, e sul perché così tante persone continuano ad amarla. Si tratta della testimonianza trovata da Iacono sui social, di una persona che si trovava nello stesso ospedale di Maurizio Torresan proprio nelle sue ultime ore di vita.
Al piano di sotto la tv del San Raffaele dava i cartoni animati. Mi fermai per qualche minuto, nella sala c’era solo un bambino sugli otto anni, assorbito da Dragon Ball. Fu come rivedere me trent’anni fa, assorbito dalle avventure degli Ufo Robot. Dopo la sigla finale, il bambino mi guardò con aria compiaciuta: «Visto che forza?» «Eh già, non lo batte nessuno – riposi – speriamo che non si ammali mai» «Beh, anche se si ammala, Goku non può morire».
Goku non può morire. Anche se la morte viene a prendersi la sua voce, anche se ha preso le mani che l’hanno creato, Goku non morirà mai, e non perché è un personaggio di carta, non perché è un supereroe. Goku non è Superman, o Spiderman, non è quel tipo di eroe che riceve in dono il suo talento e ne fa semplicemente uso. Goku fa parte di quella specie, tutta nipponica, di chi il suo talento lo riceve e ci lavora, ci si spreme, cercando di superare sempre il limite. Goku, in fondo, non è altro che questo: l’infinita, ostinata, irremovibile fiducia nelle capacità umane.
Anche di sconfiggere la morte.
Nota noiosa ma doverosa alquanto: avrei voluto inserire solo immagini del manga, in quanto Toriyama non ha lavorato direttamente all’anime. Peccato che le immagini che si trovano in rete non siano proprio tutto questo granché. Quindi godiamoci le immagini dell’anime e pazienza.