Mi sposto, almeno per oggi, dalla famigerata Balloons all’altrettanto famigerata Narrami; così come una rana salta da uno stagno radioattivo abitato da lontre idrofobe a un pastrano cerato blu.
Andrò direttamente all’oggetto dell’articolo odierno, lasciando che sia ciò che segue a spiegare: Mauro Corona.
Mi premuro subito di rispondere alle domande più probabili.
No, Mauro Corona, MAURO, NON Fabrizio.
No, non c’entra nulla con la birra.
No, no, no e poi no. Mia sorella non ha MAI fatto cose del genere. Calunnie e maldicenze!
Possiamo procedere.
Mauro Corona, oltre a essersi guadagnato buona fama in qualità di scultore ligneo, alpinista, scalatore, falegname, jazzista, esperto di Jujitsu, cardinale, valletta televisiva e stuccatore artistico (lascio stabilire ai lettori dove termini il reale e inizino le cazz…), è uno scrittore. Sconosciuto a buona parte di coloro con cui mi è capitato di dialogare, posso assicurare che i frequentatori di librerie lo conoscano più che bene, vista l’affluenza ruba-posti che precede le sue conferenze di una buona mezz’ora[1].
Originario di e tuttora residente a Erto (paesino friulano che sarebbe eufemistico definire poco frequentato), il nostro si distingue per l’aspetto, che nei suoi precursori sembrerebbe indicare un bizzarro cocktail genetico tra Reinhold Messner, Gesù Cristo e un pirata: chioma e barba folte, bandana perennemente sul capo, braccia come tronchi solitamente esposte al maltempo e alla pioggia dalla canotta, Mauro non passa certo inosservato.
Tornando al punto focale della vicenda: di cosa scrive Corona?
Ma Corona, lungi dall’indugiare solo in tirate moralistiche o in invettive contro i ben noti vizi d’oggi, è soprattutto uno scrittore di montagna. Nei suoi tomi, scritti con una lingua semplice ma ricca di sfumature, che all’italiano arriva ad affiancare i pietrosi tecnicismi dialettali della zona, Mauro dipinge affascinanti affreschi montani, delineando le forme al contempo rudi e soavi delle sue montagne e di coloro che le abitano (o meglio, le abitavano). Alle storie pulp di brutali uccisioni, vendette montane e mostruosi incidenti, capaci di tenerci attaccati alla pagina e farci sudare freddo, lo scrittore alterna spaccati di vita quotidiana, processioni di paese cariche di sentimento, ritratti di personaggi che, nella loro semplicità, si ergono a figure ideali.
Episodi di crudeltà sugli animali e di ferocia sovrumana precedono o seguono senza soluzione di continuità momenti di grande empatia con le altre specie e di devozione profonda. Nel caleidoscopio di voci che cantano il disagio dell’uomo nella società moderna, Mauro fa udire la propria dal remoto paese natio, immerso nel verde di un Friuli che, passo dopo passo, cede terreno all’industrializzazione e al venir meno di tradizioni secolari. Non è un caso che Erto sorga all’ombra della diga del Vajont, la superstruttura “responsabile” dell’omonimo disastro che il 9 ottobre 1963 cancellò dalle carte geografiche la cittadina di Longarone, portandosi via quasi 2.000 vite[2].
Nelle opere di Corona si respira un’aria mistica, il reale va fondendosi col fantastico, col mitico: il mondo dello scrittore è popolato da personaggi che, alla mungitura delle mucche o alla raccolta di legna, alternano l’uso di maledizioni e la morte violenta per nefasti presagi. Il confine tra realtà e fantasia, tra verismo naturaleggiante e occultismo sciamanico, si fa nebuloso se non indistinguibile.
Preponderante è anche la componente autobiografica, permeante la quasi totalità dei libri di Corona, sia che si tratti dei suoi trascorsi sia che si ambienti una vicenda più o meno fittizia in luoghi a lui cari. Non pensate che il passato del nostro sia trascorso nell’alternarsi di casa e chiesa: un libro come Aspro e dolce (2004), incentrato sulle esperienze alcoliche dell’autore, eclissa le imprese di qualsiasi aficionado del Nirvana pavese; oltre, chiaramente, a provocare grasse risate.
Se quanto è stato detto finora non dovesse ancora avervi convinto, sappiate che al 1998 risale il libro di Corona Le voci del bosco, un’opera che, in maniera riduttiva e generica, potrebbe essere definita un trattato di carpenteria animista. Perché questo fatto dovrebbe risultare di qualche peso?
Ma perché Corona è riuscito nell’impresa di rendere un testo di questo tipo interessante, ovviamente.
Chiudo con una parentesi sugli ultimi libri del buon Mauro, che in parte hanno abbandonato le ambientazioni e l’atmosfera natia per spostarsi su un piano più generale, per configurarsi come universali[3]. La mia umile e probabilmente non illuminata opinione è che tali produzioni, per quanto pregne di significato, siano scevre di quella magia inimitabile che caratterizza le opere “di casa” dell’autore ertano. Il clima che si respira scorrendo le pagine in cui, tra realtà e mito, Corona illustra il mondo montanaro a lui così famigliare rimane, per usare una metafora calzante, una vetta irraggiungibile.
Ritengo, forse in maniera banale, che il palcoscenico ideale per la lettura di questo ruvido ma bonario autore sia il paesaggio dolomitico, adagiati all’ombra d’un pino o esposti alla luce su una cima soleggiata e rocciosa. In quanto al miglior accompagnamento, si spazia dalla cioccolata al sempre attuale bicchiere di rosso.
Se non ci sono altre domande, io chiudo.
…
NO, ve l’ho detto! NON HA MAI FATTO COSE DEL GENERE!
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In copertina: Mauro Corona (credits: RollingStone)